Il secchio pieno di latte stava per terra dal mattino. Il contenuto era ormai guasto e rancido. Il caldo di quell’estate torrida aveva seccato tutto e inacidito ciò che era fresco. Manuela giaceva sul pavimento. Tra le fessure del parquet il sangue si era fatto strada disegnando strane figure geometriche, interrotte qua e là. Massimo era scappato. Aveva sbagliato, lo sapeva, ma aveva paura. Di solito ci si inginocchia accanto al cadavere, lo si abbraccia e si piange sulla vita che non c’è più, sul corpo freddo che non reagisce più alle nostre parole, carezze, sollecitazioni. Massimo invece aveva solo provato l’impulso di allontanarsi, il più in fretta possibile, e lo aveva fatto, senza pensare, senza valutare, sentendo solo il cuore che urlava scappa scappa scappa. Ora, aggrappato al muretto, piegato in due per il dolore alla milza, fermo per riprendere fiato, si domandò cosa diamine gli fosse saltato in mente. Perché mai era scappato? Non era colpa sua, Manuela era fatta così, non ci si poteva far niente. Non voleva essere aiutata, non voleva dare ascolto a nessuno, meno che mai a lui.
– Non lo farò.
– Devi farlo, sei l’unico che possa aiutarmi.
– Ma sei impazzita? Come puoi chiedermi una cosa del genere?
– Non ci saranno conseguenze, ho pensato a tutto.
Quella sera avevano litigato, prima al ristorante. Poi, quando gli sguardi che si giravano a osservarli erano diventati troppo, uscirono in strada. Continuarono a discutere anche lì, e poi in macchina e poi a casa.
– E va bene, vattene, farò da sola. Ma non tornare più!
Se ne era andato infuriato ma, più aumentava la distanza fra lui e Manuela, più aveva voglia di tornare indietro. Ci stava pensando e in fondo era vero, a chi poteva chiederlo se non a lui? Però non era convinto, una parte lo spingeva a rientrare a casa e dimenticarla, una parte voleva tornare da lei.
Provò a chiamarla, il giorno dopo, ma non rispondeva. Le mandò messaggi, inutilmente. Andò sotto casa sua, le luci erano spente, non rispondeva al citofono. Un misto di paura e sollievo serpeggiava tra stomaco cuore e gola. Lo aveva fatto? Si era decisa? Ci era riuscita? Poi squillò il telefono.
– Manuela!
– Che diavolo vuoi?
Riattaccò, non sapeva rispondere. Che diavolo voleva? Consolarla? Aiutarla? Scappare per sempre? Non lo sapeva. Scrisse nel messaggio Scusami, vado a casa, non so che fare, mi dispiace. Lei non rispose, lui non la cercò per qualche settimana. Poi però, col caldo, si avvicinò il periodo delle ferie, le avevano sempre trascorse insieme e non sapeva che fare. La chiamò, ma risultava sempre non raggiungibile. Le scrisse, ma la spunta di lettura non compariva mai. Decise di provare a casa. Al citofono non rispondeva. Salì seguendo un inquilino:
– Deve entrare?
– Sì grazie.
Ci pensò ancora, si sarebbe arrabbiata, gli aveva detto di sparire, e sparire era ciò che voleva, ma un angolo del cervello non aveva pace, doveva sapere. Suonò più volte, senza esito. Fece ciò che sarebbe stato la fine di tutto , se lei fosse stata in casa, ma non aveva scelta. Usò le chiavi, per l’ultima volta, gliele avrebbe ridate, ma doveva sapere. Una puzza strana lo accolse, insieme all’afa. Avanzò lungo il corridoio invaso dal sole e dal caldo. Manuela era in cucina, il fornello acceso non scaldava niente. Il contenitore destinato a quella fiamma era per terra, accanto al corpo immobile di Manuela.
– Devo preparare il tofu, non rompere, hai detto di non volermi aiutare, sparisci e basta.
Non l’aveva più sentita da allora, aveva cercato di sparire, ma il tarlo di averla abbandonata, di non averla aiutata, non dava tregua.
Le prese il biglietto dalla mano, lo infilò in tasca e scappò. Lo sapeva che era per lui, quel biglietto. Quando si decise ad andare alla polizia, lo consegnò all’agente senza nemmeno averlo letto. Dato che non ti crederanno, glielo scrivo io: non sei stato tu, sei stato troppo vigliacco per aiutarmi, ho dovuto pensarci da sola. Questa volta sparisco io, tu non sei capace nemmeno di andartene per davvero. Sulla carta bianca c’erano dei segni rossi e delle macchie di latte di soia.